Tre sbarbatelli in bici alla Madonna della Corona
«Chi conosce il santuario della Madonna della Corona?» Se rivolgessi questa domanda ai soci FIAB di Verona vedrei sicuramente alzarsi la totalità delle mani. Se poi domandassi: «Chi ha raggiunto il santuario in bicicletta?» Vedrei qualche mano, precedentemente alzata, tornare ad abbassarsi. La distanza da Verona e la salita sono di tutto rispetto è l’impresa non è alla portata della totalità delle persone. Qualcuno di sicuro farà presente di aver raggiunto a piedi il santuario durante una camminata notturna. È un classico dalle nostre parti! Ma se la domanda fosse: «Chi è andato alla Madonna della Corona in bicicletta ma a piedi?» credo che molti comincerebbero a chiedersi il significato di questa domanda. Come si fa ad andare in bicicletta ma a piedi? Sinceramente a quel tempo non lo sapevo nemmeno io, poi l’ho sperimentato personalmente.
Andiamo con ordine. Eravamo in tre – i soliti tre del giro del lago – Raffaello, Paolo e il sottoscritto. Reduci da una avventura come il tour del Garda ci potevamo accontentare di una semplice pedalata nei dintorni di Verona? Certo che no! Dovevamo pensare ad una impresa che scaldasse i nostri cuori e mettesse alla prova la nostra esuberanza giovanile! Più che altro erano anni in cui l’estate te la dovevi organizzare da solo: non c’erano attività pianificate che ti occupassero tutto il giorno mentre i genitori erano al lavoro. E cosa c’è di meglio che pensare di salire alla Madonna della Corona da Brentino lungo il sentiero – detto dei pellegrini – che si inerpica per la montagna e portarsi appresso la bici? Detto fatto abbiamo predisposto la fase organizzativa e ci siamo preparati a partire dopo aver definito un piano di massima sull’itinerario da percorrere. Inutile dire che il GPS non esisteva (se fosse esistito sarebbe sicuramente stato l’acronimo di un Gruppo di Pedalatori Sportivi), e le maps che avevamo a disposizione erano quelle cartacee con l’indicazione delle strade ma non dei sentieri. Eppure nonostante queste enormi difficoltà (!!) siamo riusciti ad orientarci senza alcun problema fino alla meta e, pensate! pensate!, anche al ritorno. Non so se oggi i nostri figli quattordicenni (sarebbe più corretto dire nipoti) sempre disposti a navigazioni virtuali saprebbero fare di meglio, ma questo è un discorso da non approfondire per non sembrare vecchi e brontoloni.
A bordo delle nostre possenti bici – soprattutto riguardo al peso – io e Raffaello siamo partiti da Verona, mentre Paolo ci aspettava a Parona. Questa volta le biciclette erano debitamente equipaggiate di pompa e materiale per eventuali riparazioni; eventus docet (l’esperienza insegna)! Abbiamo percorso la statale del Brennero fino a Peri, attraversato il ponte sull’Adige e raggiunto Brentino. E qui ci è apparso in tutta la sua maestosità l’imbocco del sentiero che porta alla Madonna della Corona. Il primissimo tratto era rappresentato da larghi scalini in pietra che però ci permettevano di salire spingendo la bici a lato della scalinata. Più avanti il percorso si inoltrava nel bosco e diventava sassoso e disagevole. Dopo vari tornanti il sentiero puntava decisamente verso l’interno del vajo.
Diciamo la verità: nessuno sapeva esattamente cosa ci aspettava, ma in cuor nostro speravamo che la fatica potesse essere contenuta. Invece i sentieri di montagna hanno tanti brutti difetti: sono irregolari, in salita, con molti tornanti, pieni di sassi e, in più punti, sono anche stretti. Riuscivamo a spingere la bicicletta per alcuni tratti ma in altri punti dovevamo sollevarla, mettercela sulle spalle e superare gli ostacoli che via via si presentavano. Dovevamo anche prestare una certa attenzione ai nostri movimenti perché se è vero che il sentiero mostrava la visione affascinante delle pareti sovrastanti era altrettanto vero che si apriva sull’orrido fondo della gola. E quando sembrava che non ci fossero più passaggi ecco un’arditissima scalinata, completamente scavata sulla roccia, che saliva zig zag, cambiando direzione in continuazione. In questa situazione portare una bici a spalla non era certo agevole per nessuno; se poi quella bicicletta pesava un terzo del tuo peso anche il salire i gradini costituiva una difficoltà non comune. È stato durante uno di questi passaggi che ho sbattuto contro una roccia e ho distrutto il fanalino posteriore. Ma c’era ancora il sole e la cosa non mi ha preoccupato più di tanto. Dopo qualche ora, finalmente arriviamo su un “terrazzo” alla base della scalinata che porta all’interno del santuario. Ce l’avevamo fatta anche stavolta! E mentre ci guardavamo in faccia, soddisfatti del risultato raggiunto, veniamo avvicinati da un signore che ci chiede se possiamo aiutarlo a spingere l’auto che non vuole partire. Qualcuno si chiederà cosa ci facesse un’automobile in quel posto e ad essere sinceri ce lo siamo chiesti anche noi, ma non abbiamo avuto la forza di esplicitare il pensiero. A pensarci adesso mi vien da dire che eravamo come in un film di fantozziana memoria: ad una situazione inverosimile si aggiunge una condizione peggiorativa. Dopo una salita di quasi 650 metri, trascinando e sollevando le biciclette, mentre ancora fatichiamo a riprendere fiato, ci compare davanti un clone del rag. Filini (il collega di Fantozzi) che ci chiede di spingere la sua Fiat 600! Eravamo giovani, pieni di ideali e generosità e, pur esalando i nostri ultimi respiri, siamo riusciti a metterla in moto spingendola per una decina di metri in leggera ascesa. Il Filini, felice di poter ripartire, ci ha offerto una bottiglia di “spuma”. Soprassediamo su ogni spiegazione di cos’era la spuma – una bibita che di naturale aveva solo l’acqua – per dire che in quel momento ci è parsa una bevanda dionisiaca. E niente avrebbe saputo gratificare meglio lo sforzo sostenuto.
Dopo un sacrosanto riposo, la visita al santuario – non ce la siamo sentita di percorrere in ginocchio la scalinata di accesso – e un ringraziamento alla Madonna per averci condotto sani e salvi fin là sopra, abbiamo ripreso la salita verso Spiazzi: sono altri 110 metri di dislivello con una pendenza significativa. In alternativa c’erano altri scalini! A Spiazzi ci siamo fermati per un meritato rifornimento di calorie e poi giù, finalmente in discesa, per raggiungere nuovamente la vallata. L’unico problema incontrato ha riguardato l’abitato di Pazzon che abbiamo imboccato a velocità sostenuta senza accorgerci che il fondo stradale passava dall’asfalto ad un acciottolato. Siamo stati costretti a tenere saldamente in mano il manubrio e a subire la conseguente trasmissione di una vibrazione a tutto il corpo. All’uscita del paese, mentre la bicicletta filava liscia, tutto il nostro fisico era ancora squassato da un tremito incontrollato. Non eravamo scossi per aver evitato il rischio di cadere o per l’entusiasmo e la felicità dell’impresa: il tremito era dovuto all’inerzia della carne che una volta messa in movimento stentava a fermarsi.
Passato Caprino la pedalata si è fatta più sciolta, ma in presenza di tanti campi d’uva ormai matura – si era a pochi giorni dall’inizio delle scuole – siamo stati colti da una voglia matta di assaggiarla. Fermate le bici e entrati nella vigna, ci apprestavamo a cogliere qualche grappolo d’uva quando sentiamo una voce che ci chiede: «Volìo ‘na man?» che tradotto per i non veneti significa «Vi serve un aiuto?». Un contadino, perfettamente mimetizzato, era apparso dal nulla ed ha congelato ogni nostro gesto. La risposta più banale sarebbe stata quella di dire: «No, grazie, possiamo far da soli», ma abbiamo capito che in quel momento non era la replica più efficace. Con un sorriso di circostanza gli abbiamo spiegato che avevamo la gola secca per lo sforzo fatto e lui con molta tranquillità ci ha tagliato qualche grappolo, perché altrimenti «me ‘sassinè le piante (mi rovinate le piante)». Come dire che se le cose si chiedono si possono ottenere senza bisogno di intrallazzare o, peggio ancora, di creare situazioni di ostilità. E con questa lezione di tolleranza ed educazione siamo arrivati fino a casa.
di Andrea Sivero
(da Ruotalibera 162 – aprile-giugno 2019)