L’eclissi dei colori
L’alba è una tenera amante: tutte le mattine scivola fuori dal tepore notturno e si leva a rischiarare il mio cammino: quella mattina mi sembrava diversa, sfuocata, sfuggente, quasi avesse fretta di congedarsi.
Un’impressione fugace che avevo dissipato dopo esser salito in sella alla bicicletta ed aver trovato il ritmo che accordava i miei piedi sui pedali all’aria nei polmoni. Il verde della campagna, ancora sopita, fuggiva attorno a me e, senza rendermene conto, ero già giunto sul limitare del bosco da cui un dedalo di sentieri s’irradia lungo le direttrici che definiscono la valle.
Le gambe giravano come un mulinello sui pedali mentre le gomme mordevano lo sterrato: lo scoppio mi colse di sorpresa, attanagliandomi il cuore.
Per una frazione di secondo udii i pallini proiettati fuori della cartuccia che foravano e attraversavano le foglie: mi girai in quella direzione e le sfere di metallo mi colpirono in pieno volto, conficcandosi nelle orbite degli occhi.
L’uomo che aveva sparato si dileguò nel nulla, un ramo secco che si spezzava era l’unica traccia che rimaneva del suo passaggio. Avvertii dei lampi, sotto le palpebre abbassate, persi l’equilibrio, sbattendo prima su dei grossi rami e poi cadendo su delle rocce che affioravano dal terreno.
Quando mi sono destato uno straccio di sole filtrava attraverso gli alberi, lo sentivo, caldo, sulla fronte; messomi a sedere, ovunque mi toccassi in viso, avvertivo la densità appiccicosa del sangue rappreso. Avevo iniziato ad urlare fino a che le lettere che componevano la parola aiuto mi avevano bruciato la gola.
Un vecchio in cerca di funghi mi aveva sentito ed era corso a cercare aiuto mentre l’odore della resina impregnava gradevolmente l’aria. Qualcosa era mutato: la luce del sole stava sfiorendo, come il mozzicone di una candela, e lasciava spazio ad un’amena ombra che mi velava gli occhi.
L’ululato stridente della sirena dell’ambulanza mi accompagnò fino in ospedale di cui realizzai immediatamente l’atmosfera: il disinfettante che brucia le narici e pizzica la gola, le voci a mezz’aria, rapide e nervose, le vibrazioni metalliche di barelle e sedie a rotelle, fino a sfumare nel frusciare delle carte, poi il buio totale, nella mente, oltre che negli occhi.
Le stanze di ospedale che abitai da quel giorno erano sempre in penombra, la percepivo attorno a me, appiccicosa, come il sangue che quel giorno mi imbrattava ovunque mi toccassi. Per sottrarmi a quella condizione, cercavo di alimentare il ricordo dei colori dal vortice dell’oblio che tutto fagocita: mentalmente associavo diverse sfumature a tutte le voci e i rumori che animavano quegli ambienti, luoghi di cui avvertivo la misura in funzione della gamma di suoni che ci abitavano dentro. Cercavo di difendermi come potevo da quell’invadente macchia nera che si stava impossessando della mia esistenza.
Un pomeriggio, un sospiro mi colse alla sprovvista, non avevo udito i passi avvicinarsi alla soglia: – La porto giù in giardino.-
Un tono sereno ma fermo, un metallo brunito riscaldato dal sole. Gli spostamenti d’aria e l’avvicendarsi degli odori definivano gli spazi percorsi nei corridoi. La soglia dell’ingresso fu scandita da un sobbalzo, attutito dalle ruote di gomma della carrozzina su cui ero adagiato.
L’aria mi punse il viso come fossero spilli scagliati verso di me da compagnie di arcieri; del sole non c’era traccia, non avvertivo il suo tepore sul viso, nulla.
L’infermiera mi spiegò che tutto attorno c’erano edifici molto alti ed il sole riscaldava il giardino solo poche ore durante la giornata. Mi accompagnò per una breve passeggiata: le persone la salutavano con timbri di voce che sfumavano ad ogni nostro spostamento. L’arrestai solo quando udii una voce di uno squillante arancione corrispondere il suo saluto.
Chiesi di riposare un attimo, si sedette e, con la sua voce di un verde salvia, dai toni pastello, mi presentò Aurora: rideva forte, come chi ha la vita che le esplode dentro, con i toni accessi del rosso rubino. La sua voce e la sua risata mi destarono da quel torpore grigio ed opaco che stagnava indolente nelle mie vene. Per un attimo mi parve che il sole avesse fatto capolino, infilandosi in uno scampolo di cielo, espugnato alle nubi. Una sensazione di giallo, denso e diffuso. Non riuscivo a parlare, la mia voce era impastata di grumi densi di nero e marrone. Nella mia testa scoppiavano concitate urla viola di rabbia per non riuscire a spinger fuori le parole. Reclinavo il capo, incassandolo nelle spalle che si facevano sempre più aguzze, due aborti d’ali, tendevo i timpani a quella voce la cui armonia era pari ad un solletico leggero, dai toni del blu elettrico, a bassa tensione.
Lasciavo che il tempo mi scorresse addosso in quegli ambienti gravidi di toni stagnanti ed opachi che si alternavano al bianco sporco dei silenzi ma in giardino, lì le sensazioni si amplificavano, come l’acqua che diluisce i colori. Aurora, fedele al suo nome, elargiva luce trasparente: la sua voce diluiva il rosa dei sussurri e pennellava di indaco le vocali che stemperava nell’arancio delle sue risate che mi inebriavano. La voce, al cospetto di lei, progressivamente, stava rifiorendo coi colori dei prati di maggio nel vivaio del mio intimo. Cominciammo a parlare di tutte le cose che ci mancavano: a me avevano rubato il sole ma lei era stata costretta a sedere su una carrozzina, come il bocciolo di un fiore, privato del suo regale stelo. Ma un fiore è un fiore, il profumo di una rosa prorompe nell’esistenza come un faro illumina i naviganti alla deriva ed io mi sentivo così: una zattera in balia delle onde, nel buio assoluto di una notte senza fine. Aurora mi prese per mano e, con le sue parole, tracciò nella mia mente il cammino che mi ricongiungeva al sole.
Nel susseguirsi delle parole, il sole avevo ricominciato non a sentirmelo addosso ma dentro: vivo, giallo, infuriato e selvaggio nell’anarchia delle nubi incendiate nel propagarsi diffuso delle vampe al tramonto. Giorno dopo giorno mi libravo nell’infinito dell’azzurro, condotto da questa impareggiabile guida, anche in quei giorni in cui il sole si tingeva di verde acido, contaminato dai fumi delle ciminiere e dagli scarichi delle macchine, o era velato da uno smalto opaco, come di caligine, in quei giorni in cui l’aria era pesante e le nubi gravide di pioggia. Più Aurora raccontava, più penetrava, prorompente, nei varchi che stavo aprendo di nuovo alla vita. Un giorno fui io a stupirla: – Perché non facciamo un giro?-
La sua voce si fece titubante, come un motore che stenta a partire: – Cosa vorresti fare?-
-Tu mi racconti il mondo ma io posso spingere la tua carrozzina e fartelo vedere.-
Con una voce che sembrava in equilibrio su un filo, acconsentì ad assecondare quel mio impeto di sana follia.
Ancora oggi, mi siedo sotto il pergolato e ascolto il canto del sole, dall’alba al tramonto, i suoi raggi s’infilano tra un ramo e l’altro, disegnando il loro chiaroscuro sul mio corpo, all’ombra delle fronde che oscillano, leggere, ad ogni alito di vento. La brezza sussurra sulla mia pelle i racconti che le stagioni serbano per noi. Io più non lo vedo ma il sole ritorna, sincero, ogni mattino e Aurora, con le sue parole, ne dipinge la luce.
Testo e disegni di Andrea Bisighin
(da Ruotalibera 167 – luglio-settembre 2020)
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