Il furgoncino a tre ruote
Gli ultimi furgoncini a tre ruote che ho visto in giro sono stati quelli usati dai netturbini prima della raccolta differenziata effettuata con il camion.
Questo mezzo per il trasporto e la distribuzione di merci nella breve distanza era stato ideato nel 1915 dalla ditta Doniselli di Milano, un’azienda da sempre dedita alla produzione di biciclette da lavoro, ed era rimasto in uso fino agli anni ’70.
La parte posteriore del triciclo non era nient’altro che una solida bicicletta da donna munita di un freno al cerchio azionato da un pedale. La parte anteriore era costituita da un pianale di legno su due robuste ruote, unito al resto del telaio da un cuscinetto a sfere. La versione standard portava un cassone con sponde alte una quarantina di centimetri, adatto a contenere merci di ogni tipo e qualità.
Come quelle di Strasseossi, uno straccivendolo al quale avevano affibbiato il soprannome ricavandolo dal suo grido caratteristico:
Un richiamo, una pubblicità, l’intero catalogo degli articoli trattati in un’unica emissione di fiato. Geniale! Immaginavo dove finissero il ferro e gli stracci, ma delle ossa, cosa diavolo ne faceva? Mia nonna mi raccontava che anni prima raccoglieva anche i capelli delle ragazze, rivendendoli poi a una fabbrica di parrucche. Roba da film dell’orrore.
Un tempo il precetto che imponeva l’astinenza dalle carni nel giorno della morte del Signore era ancora scrupolosamente rispettato, ragion per cui ogni venerdì mattina il pescivendolo passava per le nostre vie arrancando sui pedali di uno di questi tricicli urlando:
– «Peeesse ooooh, peeesse ooooh!»
Vendeva pesce minuto, maiaroni, cagnole, saltarei, ottimi con la frittata, oppure carpe e tinche di risaia da friggere in grossi pezzi, pesci gatto dai lunghi baffi e viscide anguille provenienti dai fossi della bassa da cucinare in umido con i piselli. Raramente arrivava anche qualche luccio e qualche pregiata trota del Garda, branzini, salmoni e scampi invece erano del tutto sconosciuti. Pierino passava durante la stagione estiva un paio di volte alla settimana, in un cassone di lamiera stagnata trasportava i parallelepipedi di ghiaccio che alimentavano le ghiacciaie. Stiamo parlando di un tempo nel quale i frigoriferi erano piuttosto rari, quasi inesistenti, d’inverno i cibi si conservavano in cantina o fuori dalla finestra chiusi nella “moscarola”, una specie di gabbia da uccelli protetta da una fitta rete metallica, in estate si usavano invece le ghiacciaie, mobiletti in legno con l’interno in zinco, che avevano un comparto per il ghiaccio e alcuni ripiani per gli alimenti. Dopo aver servito le casalinghe Pierino, con un paio di colpi di punteruolo ben assestati, rompeva un po’ di ghiaccio in piccoli pezzi e li regalava ai bambini in trepida attesa. Ricordo ancora la gioia e il dolore alle tempie e l’indolenzimento ai denti provati sgranocchiando quei ghiaccioli, non lo sapevamo ma stavamo ponendo le basi per future fortune economiche di avidi odontoiatri.
Ma il furgoncino più atteso da noi bambini era naturalmente quello del gelataio.
“Il carretto passava e quell’uomo gridava: gelati!”. Lucio ci aveva scritto perfino una canzone…
Il cassone carenato a prua di nave o di gondola, le scritte multicolori, i campanelli, le trombette, il contenitore di cristallo per i coni e le cialde croccanti, i coperchi rotondi luccicanti di cromature che celavano gelati, sorbetti e semifreddi. A quei tempi pagando dieci lire l’omino con il berretto d’ammiraglio ti dava una pallina piccola di gelato, con venti se ne potevano avere due piccole, con cinquanta, un patrimonio, tre palline grandi. Io ero sempre combattuto tra cioccolato e limone, quando ero il fortunato possessore della dorata monetina da venti lire le cose mi andavano a meraviglia, una pallina per gusto, quando però ne avevo solo dieci per me erano seri problemi di coscienza. Limone o cioccolato? Non erano mica risoluzioni da prendere a cuor leggero. Si sussurrava anche di un mitico cono da cento lire con un numero imprecisato di palline grandi, nessuno di noi però l’aveva mai visto e qualche scettico dubitava addirittura della sua esistenza. Un nostro amico, Maurizio, sosteneva di averne mangiato uno tempo prima, ma era un noto cacciaballe e nessuno gli aveva mai creduto.
di Alfredo Nicoletti
foto di vallo64 (blogspot.com)
(da Ruotalibera 169 – gennaio-marzo 2021)