Bar da Spiro
Tutti lo conoscevano come “da Spiro”, dal nome del proprietario, ed era il classico Bar Sport come un tempo se ne trovavano mille altri sparsi per la penisola. Targhe e coppe sullo scaffale dietro al bancone, tra la bottiglia di Vov e quella della China Martini, foto di ciclisti e di calciatori alle pareti, fogli rosa di giornale sparsi sui tavolini. Era qui che i componenti della squadra di corridori della nostra ditta capitanati da mio padre si ritrovavano la domenica prima di recarsi alla partenza dell’immancabile corsetta organizzata in qualche paese del circondario.
Una mattina al via si era presentato uno che nessuno aveva mai visto prima, era alto e muscoloso con un fisico da vero velocista, portava i capelli lucidi di brillantina tirati all’indietro come il campione del calcio Peppino Meazza e indossava la maglia dell’Opera Nazionale Dopolavoro. Il bellimbusto si pavoneggiava in sella a una Dei modello “Oro Corsa” nuova di zecca, una macchina da seicento lire, un patrimonio per quei tempi. Aveva guardato tutti dall’alto in basso con un certo sussiego e quando si era rivolto alla combriccola il fortissimo accento emiliano ne aveva tradito le origini. Walter C., così si chiamava, era il rampollo di una famiglia benestante di Reggio Emilia che si era spostata a Verona a causa degli affari del capofamiglia.
Il nuovo arrivato era risultato subito antipatico a tutti, troppo impomatati i suoi capelli, troppo lucida la sua bici, troppo emiliano il suo accento, troppo nera la sua maglia. – A questo oggi gli dobbiamo dare una lezione – La lezione però alla fine l’avevano presa loro. Walter era veramente un buon corridore, avevano cercato inutilmente di scollarselo dalle ruote, poi a una ventina di metri dal traguardo era uscito prepotentemente rifilando mezza bicicletta al secondo. Dopo l’arrivo li aveva anche presi in giro. – Cos’è, qua correte con i freni tirati? Avete le biciclette con i tubi pieni? –
A quel punto mio padre gli si era avvicinato. – Senti, oggi pomeriggio andiamo a farci quattro pedalate su per i nostri monti, se vuoi venire noi ci troviamo alle due fuori del bar da Spiro. Sai dov’è? – – Lo conosco, tranquilli, ci sarò. –
In quel pomeriggio rovente di metà agosto i maledetti lo avevano trascinato sulle salite più impervie della montagna veronese, stradine polverose e assolate che loro conoscevano perfettamente perché le percorrevano quasi ogni settimana ma che per Walter, poco adatto fisicamente a quelle erte e abituato a percorsi pianeggianti e asfaltati, si erano rivelate un incubo terribile, gli avevano insomma, come si dice in gergo ciclistico, tirato il collo. Al ritorno, in località Lughezzano, mentre scendevano la ripidissima carrozzabile che da Bosco Chiesanuova portava in Valpantena, Walter, cercando disperatamente di tenere le ruote dei pazzi che lo precedevano in una curva a gomito aveva incautamente stretto il freno posteriore, la ruota era slittata sullo spesso strato di breccia rossa che ricopriva la vecchia strada militare e si era ritrovato a percorrere una decina di metri scivolando sul fianco destro, la bici tra le gambe e i piedi intrappolati nei puntapiedi, dal momento che nessuno dei congiurati lo avevano avvisato di allentare le cinghiette durante le discese.
Si era rialzato con una gamba sanguinante disseminata di sassolini acuminati, la nuova divisa lacerata, la Dei ammaccata e graffiata in più punti. Dopo essersi ripulito in qualche modo a un lavatoio di pietra era risalito avvilito e dolorante in bicicletta sotto lo sguardo beffardo degli altri.
Arrivati in quartiere si erano seduti come al solito a un tavolino fuori del bar Da Spiro per riposare e bere in pace un’aranciata San Pellegrino direttamente dalla caratteristica clavetta. Poi Walter si era alzato e si era rivolto al gruppo. – Sentite ragazzi, io stamattina non volevo essere scortese, ero solo euforico per la vittoria ma, credetemi, non era mia intenzione offendervi, mi siete simpatici, voglio andare d’accordo con voi e mi piacerebbe correre nella vostra squadra, voi andate forte in salita ma io potrei esservi utile negli arrivi in volata. –
A quel punto non c’era più molto da dire, mio padre e i suoi compagni dopo essersi guardati un attimo in faccia gli avevano stretto la mano in silenzio e da quel momento erano rimasti amici per sempre. I tre anni seguenti erano stati i più belli e spensierati nella vita di quei ragazzi, si erano sfidati in bicicletta ogni domenica mattina, avevano vinto, avevano perso, si erano presi in giro e avevano litigato. Si erano passati la borraccia, avevano diviso pane e salame ai bordi di una strada di montagna, si erano lanciati in bici nelle acque del lago a Peschiera, erano sfrecciati velocissimi sfiorando gruppi di ragazze che avevano strillato fingendosi spaventate, insomma tutte quelle cose sconsiderate che un gruppo di giovani della loro età in giro per il mondo in bicicletta ha sempre fatto.
Non si erano accorti però delle nubi nere che si andavano addensando sull’Europa e uno alla volta erano stati inghiottiti dal mostro del nuovo conflitto. Qualcuno non era riuscito a tornare, quelli che ce l’avevano fatta si erano ritrovati una domenica mattina seduti fuori del bar Da Spiro, rimasto miracolosamente in piedi in mezzo alle case bombardate. Erano stati a lungo a guardarsi in silenzio, le cose da dire erano troppe e troppo dure, e a volte tra amici tante parole non servono, poi si erano sciolti ma non erano più i ragazzi allegri e scapestrati che si rincorrevano in bicicletta, avevano ormai perso per sempre la loro innocenza e nessuno aveva più voglia di correre.
di Alfredo Nicoletti
(da Ruotalibera 182 – aprile-agosto 2024)