Pubblichiamo un vecchio racconto di Andrea Castelletti, attore, regista e autore teatrale veronese, declamato in occasione della Maratona Oratoria 2009 e tornato di attualità in questi giorni per via di uno spettacolo teatrale che proprio da questo racconto trae ispirazione. Buona lettura!
La Maratona Oratoria è stata un’iniziativa organizzata dal 2007 al 2010 durante la Settimana Europea della Mobilità da FIAB Verona in collaborazione con la Società Letteraria di Verona, nella quale rappresentanti veronesi del mondo della cultura e delle professioni hanno raccontato liberamente (per cinque minuti ciascuno) il proprio rapporto e le proprie esperienze con la bicicletta.
L’obiettivo dichiarato era quello di raccogliere attorno al tema della ciclabilità persone disponibili a dare dignità e visibilità sociale a un mezzo di trasporto che a nord delle Alpi, in un’Europa decisamente più moderna, risolve quote significative di mobilità quotidiana. Tutte le edizioni hanno riscosso grande partecipazione e successo di pubblico, rivelando molta simpatia dei relatori nei confronti della bici, presentata sempre con efficacia e, in alcuni casi, con grande senso dell’umorismo. Per curiosare i dettagli (e i relatori) delle quattro edizioni puoi cliccare qui di seguito sugli anni: 2007, 2008, 2009 e 2010.
Qualche giorno dopo aver ricevuto l’invito degli Amici della Bicicletta per partecipare alla Maratona Oratoria, venne a trovarmi un ragazzino che abitava nel mio palazzo. O meglio, nel palazzo in cui vivevo una ventina di anni fa, in corso Milano. «Oi, ciao, come va? Era da un bel pezzo che non mi venivi a trovare…», gli dissi. E così, parlando del più e del meno gli raccontai che non sapevo proprio come riempire quei lunghissimi cinque minuti che avrei dovuto tenere da lì a qualche giorno per la Maratona Oratoria degli Amici della Bicicletta. Al che il ragazzino mi disse: «Ti aiuto io».
E mi raccontò una storia.
Il bello è che la sapevo anche io quella storia, ma me n’ero completamente dimenticato.
Mi raccontò di quando suo padre, un giorno di primavera poco prima dei sui esami di terza media, gli disse: «Allora con la mamma abbiamo deciso. Il liceo lo farai al Don Bosco». La cosa lo lasciò tutto sommato indifferente, sino al punto in cui il padre precisò: «ci andrai in bicicletta». Cavoli! In bicicletta fuori dal quartiere! E da solo, per di più. Il suo pensiero andò subito alla sua bicicletta da cross. Decisamente inadeguata al di fuori delle montagnole di terra che in quegli anni di espansione urbanistica personalizzavano parecchie vie del quartiere.
Il sabato che entrò nel negozio di Chesini gli parve che le stagioni si fossero rovesciate e che Santa Lucia ora venisse di giugno. Il padre con una mano gli teneva la sua e con l’altra il libretto degli assegni. «Una bella bicicletta DA UOMO per mio figlio», disse al commesso. «Che ora va al liceo», aggiunse con malcelata soddisfazione e sorriso tipico da perito agrario quale era. Una bella bicicletta da uomo. Con la levetta del cambio sulla canna. Il massimo che la modernità offriva negli anni 80: grigio-metalizzato-fiat-mirafiori con sfumature azzurre bearzottiane, su cui sfiammava la scritta giallo-oro CHESINI.
«La miglior bicicletta di Verona», sentenziò il padre tornando verso casa. «Vedrai che figurone che farai andando a scuola». Si era abituato a non mettere in dubbio le parole del padre. Tuttavia già dopo i primi giorni di liceo quel ragazzino detestava dover andar a scuola in bici. Per due motivi. Che rivelano quanto contraddittoria sia quell’età.
Il primo.
Alle fermate dell’autobus – il mitico 7 – che al suo passaggio sfilavano lungo corso Milano, si accalcavano un gran numero di ragazzine. Erano terribilmente carine. E c’era anche lei. “La company del 7” si facevano chiamare. Lui, ovviamente, non ne faceva parte (la cosa più fastidiosa era quanto gli capitava di dover pedalare stando DIETRO all’autobus, divenendo suo malgrado lo spettacolo mattutino più atteso dal loggione del finestrone del retro di quei vecchi autobus, nel dileggio della company del 7).
Il secondo motivo.
Si era messo in testa che pedalando come un matto tutti i santi giorni gli sarebbero venute le gambe grosse. Con polpacci e cosce rigonfi. Quando lui invece voleva assomigliare a Goldrake, che si sa aveva invece le gambe poderosamente dritte!
A poco valsero i piagnistei a cena coi genitori. A scuola ci si doveva andare in bicicletta. Ad eccezione dei giorni di pioggia s’intende. Al che sarebbe salito sul 7. Senza per questo far parte della company. E questo era ancora peggio. Suo malgrado dovette andare a scuola in bicicletta tutti i giorni. E giorno dopo giorno cominciò a non far più bado né al nuvolame di ragazzine accalcate alle fermate, né al loggione del finestrone dietro dell’autobus, né ai suoi polpacci che si allargavano. Entrò in un suo mondo. Un mondo di fantasie. Un mondo dritto. Che iniziava dal cancello di casa sua e che finiva sul portone del Don Bosco. Un mondo di sfide. Se proprio doveva percorrere quel tratto ogni giorno, pensò, che sia almeno diverso ogni volta! Quei dieci minuti dovevano avere un senso. Altrimenti perché viverli?
Mattino dopo mattino, Corso Milano divenne per lui un tavolo da gioco.
Dove azzardare ogni tipo di sfida.
Cominciò con la più banale.
La classica. La cronometro. Il record di velocità.
Azionava il suo cronometro dell’orologio al quarzo trovato dalla mamma nel fustino Dixan ed ogni mattino doveva battere il record del giorno precedente. Si inventò anche un complicato sistema di compensazione che tenesse conto dei semafori rossi e di automobilisti maleducati. Dopo un certo numero di mattine il record stabilito era imbattibile. Inutile provarci e riprovarci.
Si inventò allora un’altra sfida.
Se la velocità era conquistata, toccava ora a….
La lentezza!
Si inventò il record del minor numero di pedalate necessarie.
Ogni colpo di pedale, dato con vigore ed impulso, veniva sfruttato sino all’ultimo decimetro che poteva dare. Prima di perdere l’equilibrio dava un altro colpo di pedale. Procedeva lentissimo. Un mammalucco. I freni non si dovevano toccare, per non sprecare nulla della forza impartita al pedale. Centellinava l’energia cinetica al pari di come un esploratore disperso nel deserto sahariano raziona l’acqua. Sviluppò doti equilibriste degne di un acrobata circense. E al pari di un velista che legge le crespe del vento sull’acqua in lontananza, lui intuiva il comportamento del traffico e dei semafori con largo anticipo per non over frenare.
Ma anche in questo caso, dopo un certo periodo, il record del minor numero di pedalate stabilito un dato giorno rimaneva imbattuto. Serviva un’altra sfida.
Grazie alle doti di preveggenza che aveva sviluppato sui semafori per minimizzare il numero di pedalate, la sfida successiva fu quella di…
Percorrere il tragitto senza mai imbattersi in un rosso.
Mentre procedeva tra i fumi delle macchine, il suo sguardo era sempre rivolto distante. Oltre. Scrutava i gialli e i verdi lontani per capire i rossi. Soppesava i tempi di chi partiva e di chi si fermava agli incroci. A destra e a sinistra. Aveva imparato a dosare le velocità, rallentare e accelerare, per arrivare sempre puntuale agli appuntamenti con gli amici verdi e passare le fauci spalancare degli incroci, con trionfale entusiasmo interiore. Tipo Charlton Heston quando passa attraverso il Mar Rosso su Rete 4, per intenderci.
Di lì a pochi giorni era diventato un gioco da ragazzi.
Troppo facile. Un successo quotidiano farsi beffa dei rossi.
Serviva un ingrediente in più.
Un fattore rischio.
Ecco la sfida del non frenare mai.
Da casa a scuola senza toccare mai i freni.
Qui non era solo questione di rossi. Stupidi semafori facilmente prevedibili. Qui la componente imponderabile ed imprevedibile erano gli automobilisti.
- Quelli che tirano per poi inchiodare.
- Quelli che girano senza metter la freccia.
- Quelli che provano a passar via l’autobus in fermata per poi accorgersi di non farcela.
- Quelli che parcheggiano metà sul marciapiede e metà sulla strada, proprio sul ciglio decimetrico dove passano le biciclette.
- Quelli che devono girare a destra e si preparano in coda già spostati a destra 100 metri prima, ostruendo il passaggio alle biciclette.
- Quelli che girano a sinistra stando sulla corsia di destra per far meno coda, per poi guizzare come rapaci a sinistra.
- Quelli che in coda si affiancano alla macchina vicina per lanciare un’occhiata lumacosa alla gnocca che la guida.
- Quelli che aprono la portiera senza guardare.
- Quelli che partono dal parcheggio senza accorgersi di chi arriva in bicicletta.
- Quelli che. Quelli che. Quelli che…
Si doveva attraversare questa giungla di lamiere, calcolando per giunta i tempi dei semafori, voltando e volteggiando ad ogni imprevisto per non toccare mai i freni. A volte capitava che non si arrivava col tempo giusto al verde, che beffardo diventava rosso proprio davanti al naso, ed allora, per non dover frenare, si doveva per forza girare a destra, allungando – a volte di molto – il percorso. E si incappava in strade mai fatte, nel senso di mai studiate, dove i semafori erano dei perfetti sconosciuti e le dinamiche psico-motorie degli automobilisti ancora più imperscrutabili.
Che avventure ragazzi! Questa sì che era SFIDA!
Ogni giorno era come uscire in mare aperto ad affrontare l’ignoto.
Ma – diciamo purtroppo – quel ragazzino divenne abilissimo anche qui. In un modo o nell’altro riusciva oramai con regolarità ad arrivare a scuola senza mai toccare i freni. Tutti i semafori della parte ovest della città non avevano più misteri. E anche il più imbranato degli automobilisti era per lui una faccenda facilmente risolvibile.
La sfida non gli dava più gusto.
Bisognava inventarsi altro.
Ed ecco allora la sfida delle sfide. La sfida che concentrava tutte le sfide. Il distillato di tutte le sfide. Che solo una mente, due gambe ed una bici ben addestrate potevano pensare di vincere. Era insomma il livello più avanzato del videogioco. Quello che ci arrivi solo se superi tutti i precedenti.
La sfida del “senza mani”.
Da casa a scuola senza mai toccare il manubrio. Senza mai frenare quindi. Dosando l’energia cinetica del pedale quindi. Correndo o rallentando per i semafori quindi. Voltando e volteggiando per le macchine quindi.
Va detto che a quell’epoca non esisteva ancora la bretella nord realizzata per i mondiali di Italia 90. A quell’epoca per entrare in città tutta la popolazione della provincia ovest si riversava su corso Milano. E corso Milano al mattino era un’unica interminabile coda. Una muraglia di macchine con episodici varchi accidentali, tra nubi di scarichi, specchietti retrovisori come rostri e tombini mal raffazzonati. Il lento respiro dell’impazienza dell’automobilista in coda produceva la chiusura – a volte lenta, a volte fulminea – dei varchi. E per uno che si chiudeva uno se ne apriva. Equilibrio e potenza, preveggenza e riflesso, strategia e revisionismo. Ogni volta il cammino da percorrere era quello che il caso o il disequilibrio di un momento imponevano.
La sfida era durissima. Altro che Goldrake che schiva i bitorzoli fotonici del mostro di turno. Qui ci volevano i riflessi di Actarus della miglior puntata per farcela! Ogni volta c’era un imprevisto che lo obbligava a metter le mani sul manubrio. Una curva troppo improvvisa o troppo chiusa o una frenata da fare…
Beh, insomma… manco a crederci dopo svariate mattine il ragazzino riuscì ad arrivare a scuola senza mai toccare il manubrio. E poi più volte. Al punto che si spinse a far partire la sfida non tanto dal cancello di casa, ma dal portone del garage sotterraneo. Prendeva velocità e faceva anche la salita del garage senza mani, curva a gomito compresa. E la sfida non finiva sul portone della scuola, ma alla grata del parcheggio delle biciclette nel cortile interno. Tutto senza mani.
Oramai il gusto della sfida, qualsiasi sfida, era un affare quotidiano. Si inventava sfide di ogni tipo. Alcune anche improvvisate, sulla base ad esempio di lavori in corso che capitavano lungo la via. Alcune improbabili. Altre insipide. Altre impossibili.
Tra le tante, quella che lo divertiva di più, nelle giornate di sole, era…
La sfida dell’ombra.
Doveva trattenere il fiato ogni qual volta il suo percorso era in ombra. L’ombra era il subacqueo. Il sole era la spiaggia. Abissi d’ombra erano gli alberi, i palazzi, le macchine, gli autobus. Gli autobus erano i peggiori. Perché erano occasione di una grande ombra semovente che, se ci finivi invischiato, a volte era proprio difficile uscirne nel tempo di apnea che i polmoni consentivano. Potete immaginare la fatica, il fatidico sforzo di impartire gli ultimi colpi di pedale in stato di insufficienza respiratoria. Paonazzo e indifferente alla company del 7, pedalava in un misto di sfinimento e sforzo.
Quel ragazzino ora è cresciuto.
Ma gli è rimasto quel desiderio di “sfida” nel fare le cose, anche le più semplici del fare quotidiano.
Sono contento che mi sia venuto a trovare in questi giorni.
Salutandomi mi ha detto che sarebbe felice di tentare una nuova sfida:
Uno spettacolo teatrale sulla bicicletta.
di Andrea Castelletti (attore, regista, direttore artistico, giornalista)
Racconto originale letto dall’autore in occasione della Maratona Oratoria 2009.
Immagine in evidenza e foto: dettagli di una Chesini precision (1983) dal sito troppebici.it.
Il racconto si concludeva con l’idea della nuova sfida balenata nella mente dell’autore di realizzare uno spettacolo teatrale sulla bicicletta. A onor del vero va detto che nei molti anni di attività teatrale di Andrea, attore, regista e autore, le biciclette sono già state protagoniste in più di un’occasione. Quando, ad esempio, mise in scena l'”Umberto Dei – Biografia non autorizzata di una bicicletta” dello scrittore Michele Marziani, nella forma della commedia musicale “Biciclette”. O quando nel 2011 dalla stessa opera trasse l’intenso monologo “Il ragazzino e la bicicletta”, replicato per ben 42 serate. Della sua amata due ruote Andrea Castelletti è stato sempre un ottimo testimonial (tanto da meritarsi il nostro ambito premio “Amico della Bicicletta” nel 2016).
In questi giorni Modus Produzioni ha annunciato TEATROTTANTA Dance Party, il nuovo spettacolo sugli anni ’80 che debutterà al Teatro Modus il prossimo 17 febbraio e che, ci ha confidato Andrea, trae spunto proprio da questo vecchio racconto richiestogli a suo tempo da noi “AdB” e che abbiamo subito colto l’occasione per pubblicare (anzitutto perché è un bel racconto, e in secondo luogo in quanto testimonianza di una bella iniziativa passata).
Ci rallegriamo di essere stati indirettamente ancora una volta occasione di arte e bellezza e non ci resta che invitarti a teatro per vivere questa nuova entusiasmante esperienza che, l’autore lo garantisce, sarà una vera e propria festa.
Ti ricordiamo che la convenzione con Modus prevede l’ingresso ridotto per i soci FIAB in regola con l’iscrizione annuale.
Arrivederci a teatro!